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ratio

una civiltà senza sentimenti

Pubblicato su da ronin

Io detesto ed ho sempre detestato la borghesia.

Nel Buddenbrok di Thomass Mann c'è un passaggio straordinario.

Quando il Console Jhoann Buddenbrook chiede alla figlia Tony se in quattro anni di matrimonio, che egli le ha imposto per motivi di interesse, si sia affezionata al marito, l'imprenditore Grunlich, ora rovinato da un dissesto finanziario. E Tony risponde fra i singhiozzi: "Oh,...che domanda, babbo!...non l'ho mai amato...mi è sempre stato odioso...non lo sai?" E sul volto del console si delineano due sentimenti: da una parte c'è lo sgomento, perché si rende conto di aver rovinato la vita alla figlia, ma dall'altra sul suo viso si disegna l'espressione che " aveva ogni volta che concludeva un buon affare", perché la confessione della figlia lo libera dall'obbligo di chiudere le perdite del genero. In quella orribile soddisfazione di Jhoann Buddenbrook c'è tutto il borghese.

Un individuo che sacrifica i sentimenti, gli affetti, le pulsioni e la vita stessa al calcolo, all'interesse, all'astrazione denaro. Che vive disegnando ipotetiche strategie per il futuro, mortificando il presente.

Un idiota che, ribaltando venti secoli di pensiero occidentale ed orientale, ripete con Von Misers "non è una virtù accontentarsi di ciò che si ha" e che si fabbrica la perfetta fabbrica dell'infelicità perché nulla basta mai e colto un obiettivo ce n'è subito un altro da raggiungere, salito un gradino ce n'è un altro da fare, e così via, all'infinito.         

Io disprezzo la passione che il borghese ha per l'oggetto ed il disinteresse che ha per l'umano.

L'economista borghese, liberale e liberista, è capace di dire che "bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione". Una concezione folle, solo che ci si rifletta un attimo. Noi non produciamo più per consumare, ma dobbiamo consumare per produrre. La nostra funzione è quella di tubi digerenti, di lavandini, di water attraverso i quali deve passare l'incessante flusso delle merci. Siamo stati ridotti a dei sacchi di merda. E vorrebbero convincerci che questo e "il migliore dei mondi possibili" e che dobbiamo esportarlo per ogni dove.

ha scritto Karl Popper: "Affermo che noi viviamo in un mondo meraviglioso. Noialtri occidentali abbiamo l'insigne privilegio di vivere nella migliore società che la storia dell'umanità abbia mai conosciuto. E' la società più giusta, la più ugualitaria, la più umana della storia".

Questo non è un filosofo, ma una domestica liberale, Nella società "più umana" della storia, nata con la rivoluzione industriale, i suicidi sono decuplicati rispetto all'epoca preindustriale, le malattie nervose sono diventate un problema sociale a partire dall'Ottocento per diventare un fenomeno devastante in questo secolo, così come l'alcolismo di massa e la droga. Nella società "più egualitaria" le disuguaglianze non sono mai state così vaste e profonde.

Senza contare che la ricchezza di "questo mondo meraviglioso" è ottenuta tramite lo sfruttamento spietato, razionale degli uomini, delle donne, dei bambini delle popolazioni del Terzo Mondo, la distruzione della loro cultura e del loro habitat , la riduzione alla fame di centinaia di miioni di persone.

Altro che Paesi dove andiamo a portare i nostri pelosi aiuti, la nostra untuosa beneficenza, il nostro ordine.

Oh, si scandalizzano le buone e brave democrazie d'Occidente a vedere che lì ci si strappano i coglioni l'un l'altro.

Ma c'è più vitalità, più vita, più passione, più sangue, c'è più valore in un loro assassino che in tutti i nostri traffici, i nostri mercati, le nostre Borse, i nostri consigli di amministrazione, i nostri marchi, i nostri euro, i nostri dollari e, inoltre, le nostre astrazioni.

Ma ciò che più sgomenta nell'attuale società borghese, liberale e liberista, è l'assoluta incapacità di proporre valori che non siano il Dio Quattrino.

Ma non è sempre stato così.

C'è stata un'epoca in cui la borghesia aveva un'etica ( l'etica protestante del capitalismo secondo Max Weber ).

Denaro e ricchezza erano degni solo se conquistati con un duro, rigoroso, indefesso lavoro.

E l'onestà individuale era un valore se non altro perché significava credito, cioè denaro.

Ma è bastato che l'onestà, per la complessità, la velocità, la superficialià della vita contemporanea diventasse di fatto inverificabile, e quindi inservibile come credito, per vedere di che pasta fosse fatta quest'etica utilitarista.

Oggi il denaro e la ricchezza hanno valore in qualunque modo vengano raggiunti, col raggiro, con l'imbroglio, con l'inganno, con la slealtà, con la truffa.

Siamo ritornati nella giungla.

Ma è una giungla deserta di vita, in cui si aggitano scintillanti maschere vuote e uomini che son parodie.

 

(Massino Fini)

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Open non è free, pubblicato non è pubblico

Pubblicato su da ronin

di Ippolita (www.ippolita.net) - Creatività inscatolata o crowdsourcing di massa al servizio del marketing? Libertà di esprimersi o auto-delazione compulsiva? Introduzione ad una analisi critica dei social media

 

 Sono passati diversi anni da quando Ippolita insisteva sulla necessità di distinguerel'apertura al "libero mercato" propugnata dai guru dell'open source economy dalle libertà che il movimento del software libero continua a porre a fondamento della propria visione dei mondi digitali. "Il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo": l'open source si occupa esclusivamente di definire, in una prospettiva totalmente interna alle logiche di mercato, quali siano le modalità migliori per diffondere un prodotto secondo criteri open, cioè aperti. La giocosa attitudine hacker della condivisione fra pari veniva cooptata in una logica di lavoro e sfruttamento volta al profitto e non al benessere, sterilizzandone la potenzialità rivoluzionaria vissuta e individuata da Richard Stallman: "Freedom 3: Freedom to contribute to the community".

Muovendosi nella stessa ottica, Ippolita ha analizzato Google, un tentativo chiaramente egemonico di "organizzare tutta la conoscenza del mondo". La logica open, coniugata alla filosofia dell'eccellenza accademica californiana, trovava nel motto "Don't be evil" la scusa per lasciarsi cooptare al servizio del capitalismo dell'abbondanza, del turbocapitalismo illusorio della crescita illimitata. La favola è che more, bigger, faster sia sempre meglio. Tomorrow is another day, e sarà un giorno migliore, perché in sottofondo cova la fede nel miraggio incarnato dal bottone "mi sento fortunato": una tecnica per definizione buona, figlia di una ricerca scientifica disinteressata, soddisferà tutti i nostri bisogni e desideri, immediatamente e senza sforzo, con un semplice click del mouse.

Purtroppo, questa pretesa di totalitarismo informazionale è meno ridicola di quanto potrebbe apparire. Appurato che non c'è più nulla da produrre, e soprattutto che la crescita illimitata è una chimera anche nel mondo digitale, la rincorsa al prossimo inutile gadget luccicante e rigorosamente touch screen potrebbe vacillare, la crisi di crescita dovrebbe essere dietro l'angolo. 
Un minimo di consapevolezza dovrebbe soffiare sul nostro mondo esausto: invece di crescere correndo verso il baratro con le cuffie a tutto volume potremmo cominciare a guardarci intorno, guardarci in faccia, parlarci, scambiarci ciò di cui abbiamo bisogno, immaginare e costruire insieme qualcosa di sensato.

Messa in piedi questa gigantesca macchina tecnologica costituita di datacenter, di cervelli di prim'ordine e di codici open prontamente rinchiusi da NDA (Non-Disclosures Agreement) e simili, bisognava pur riempirla di qualcosa. Di qualsiasi cosa. Possibilmente spendendo il meno possibile o, meglio ancora, gratis. La produzione industriale del nulla sotto vuoto spinto doveva crescere, a costo zero e con profitti favolosi per i soliti noti, ma come?

La rete ormai era gettata. Piano piano, le connessioni a banda larga si sono fatte meno asimmetriche (soprattutto grazie agli investimenti e agli incentivi in perdita del settore pubblico, per "connettere" e colmare il "digital divide"...), le tariffe sono scese (ma rimangono ingiustificabilmente alte), la capacità di upload è aumentata. Ed ecco palesarsi la soluzione a tutti i problemi: riversare online i contenuti degli utenti. Quello che hanno sui loro computer, telefoni cellulari, apparecchi fotografici ecc. Ecco il frutto maturo dell'apertura al "libero mercato": la possibilità di pubblicare per tutti. E il bello, per l'ideologia della crescita illimitata, è che il margine è enorme, il processo di "webbizzazione" è iniziato da poco e le prospettive sono favolose.

Infatti per ora si tratta perlopiù di metadati (tag, profilazione ecc.), la "nuvola" del cloud computing può crescere di molti ordini di grandezza, visto che gli strumenti per gestire i documenti online (Gdocs, Facebook Doc con Microsoft Fuselabs ecc.) sono ancora poco utilizzati. Una delle più efficaci armi di distrazione di massa mai messe a punto: dispensa gratificazione presso gli utenti dei vari servizi cosiddetti "web 2.0", che non vedono l'ora di riversarsi nel grande mare nostrum dei social network (e perché mai dovrebbe essere "nostro", se sta a casa di qualcun altro: Facebook, Flickr, Twitter, Netlog, YouTube, o altri?). 

Siamo contenti e felici di avere sul tavolo e in tasca l'ultimo costoso strumento di auto-delazione dal basso, sempre connesso e con tanto di GPS integrato, con cui presto potremo fare acquisti dimenticando la carta di credito, perché chi deve sapere sappia sempre cosa ci interessa e ci piace, dove siamo, cosa acquistiamo, cosa facciamo, con chi ecc. E poiché i device sono sempre più piccoli e meno capienti, è facile prevedere un'esplosione dellostoccaggio dei dati personali online.

E siamo arrivati ai giorni nostri. A differenza di quando Ippolita gridava nel deserto dell'entusiasmo tecnofilo che forse non era il caso di mettere "tutto su Google", dalle mail in su, perché la delega (anche semi-inconsapevole) segna l'inizio del dominio (in questo caso, tecnocratico), oggi molte voci si levano contro i social network, accusati di violare la privacy degli utenti. Di essere frutto di un'ideologia fintamente rivoluzionaria, perché Internet sarà anche un movimento sociale, ma quanto elitario e contraddittorio...
In particolare Facebook, dicono alcuni autorevoli commentatori, è un progetto basato sull'ideologia della "trasparenza radicale", per cui è nella sua natura tendere a pubblicare indiscriminatamente ogni cosa, come dimostrano alcune mosse. 

Bisognerebbe ricordare anche che i finanziatori di Facebook vengono dalla cosiddetta Mafia di Paypal, sono legati a doppio filo con i servizi di intelligence civili e militari, sostengono politici dell'estrema destra libertarian statunitense. Qualcuno si azzarda anche a notare, dall'osservatorio privilegiato di Harvard, che forse c'è una bolla dei social media, anche dal punto di vista economico, visto che nessuno ha ancora dimostrato che questi social media permettano di vendere meglio i prodotti personalizzati attraverso pubblicità mirate. Persino i supporter cominciano a temere le ambizioni di Facebook.

Al di là delle proposte concrete, piuttosto velleitarie (suicidio di massa su Facebook; Diaspora Project e Lorea per ricostruire un social network "libero"; reclami e petizioni alle varie Authority e ai vari Garanti ecc), qualcuno comincia a mettere il dito nella piaga. Il pubblico. Come "aprire" un codice non significa affatto "renderlo libero", così "pubblicare" un contenuto non significa affatto renderlo "pubblico". Al contrario. Continuando per comodità con l'esempio di Facebook, è proprio l'opposto: tutto ciò che viene postato diventa di proprietà esclusiva della società, (ri)leggetevi i TOS (Terms of Service). Ma come, non era stato pubblicato? Non era pubblico? Ma pubblicato non significa pubblico. In quasi tutti i casi del cosiddetto "web 2.0" significa, al contrario: privato, di proprietà di una multinazionale o comunque di una azienda privata. Abbiamo lavorato gratuitamente per quelli che cercheranno poi di guadagnare sulla nostra pelle, servendoci le pubblicità personalizzate che ci ammorbano sempre più.

Proprio così. La contingenza è critica. Ma questa storia non è cominciata ieri, non ci troviamo per caso in questa situazione.
Piuttosto, vale oggi quello che valeva ieri, e che non siamo certo i primi a sostenere: bisogna essere in grado di immaginare il proprio futuro per capire il proprio presente. Ricordando il proprio passato, e creando un racconto collettivo, perché la memoria è un ingranaggio collettivo, nulla si ripete mai ma le differenze si somigliano, e la minestra scipita di ieri, un poco adulterata, potrebbe esserci propinata come l'innovazione radicale di domani. 

Se l'immaginario sono le pubblicità, televisive o d'altro tipo, e si concretizzano nella "libertà di scelta" tra le infinite applicazioni per iPhone (se proprio non avete nulla da fare, e ne provate dieci al giorno, ne avrete per i prossimi vent'anni) o relazionarci con i cinquecento "amici" su Facebook (una cena ciascuno, riusciamo a malapena a incrociarci tutti una volta ogni due anni), beh, forse abbiamo insistito troppo poco sulla necessità di desiderare e immaginare qualcosa di meglio.

Finora abbiamo descritto l'informatica del dominio così come la percepiamo quotidianamente.
Il metodo che si è costruito (cartografico, interdisciplinare) è necessariamente parziale e a volte poco rigoroso, ma ha permesso di far emergere il problema della delega tecnocratica in tempi non sospetti. "Tirare un colpo dritto con un bastone storto" dicevano gli schiavi giamaicani. Scrivere significa immaginare vie di fuga, e provare a raccontarle; immaginare e costruire strumenti adeguati per realizzare i nostri desideri. Mettere tutto ciò a disposizione di un pubblico che è fatto di persone, non pubblicarlo attraverso il megafono privato della bacheca invadente di qualche multinazionale. 
Siamo in tanti nella stessa condizione, a non voler collaborare, a non voler partecipare alcrowdsourcing delle masse dei social media.

I servizi di social networking spingono a ritoccare compulsivamente il proprio profilo per distinguersi dagli altri. Tuttavia non si tratta di differenze reali ma di variazioni minime all'interno di categorie predefinite (single? sposata? amico?). Il risultato è l'auto-imposizione dell'omofilia, gruppi in cui siamo "amici" perché diciamo che ci piacciono le stesse cose. La diversità scompare nell'omologazione di gusti e comportamenti.
"Se la biodiversità è intesa come un bene per le altre specie e per l'ecosistema globale, perché non lo è altrettanto per la specie umana e i suoi eco-sistemi bio-culturali?" (Lucius Outlaw, On race and Philosophy). Il valore della differenza però non è un principio quantitativo. Di più non è meglio; più oggetti/amici a disposizione non significa maggiore libertà di scelta. Il mercato globale digerisce ogni differenza. È difficile quindi rallegrarsi che qualche albero striminzito sia stato piantato per compensare le emissioni di CO2: il green capitalism rimane una follia come ogni ideologia produttivista. 

Ma pur essendo immersi in questo mondo tecnologico, vorremmo cercare di prenderne le distanze, per scrivere una sorta di etnografia dei social media. Non di come funzionano (ci sono how-to e manuali per quello), ma del perché siamo in questa situazione e di come influenzarla, iniettando eterogeneità, caos, germi di autonomia. Siamo compromessi e implicati, ma questo non significa che dobbiamo accettare tutto in maniera acritica. A partire dall'esperienza collettiva si possono trarre conclusioni individuali, in un processo di straniamento che procede dall'interno all'esterno, invece che dall'estraneità alla familiarità come accade nelle osservazioni etnografiche classiche. I selvaggi siamo noi, e abbiamo bisogno di uno sguardo dichiaratamente soggettivo, non della presunta oggettività di un osservatore esterno. E poi per fortuna il mito dell'oggettività scientifica sopravvive solo nella vulgata deteriore. È più di un secolo che le scienze dure hanno imboccato la via del relativismo, è ora che anche le "scienze umane" lo facciano con decisione. Abbiamo bisogno di relativismo radicale, di prendere le distanze da noi stessi, di osservarci dal di fuori, per capire cosa stiamo facendo, per rendere concreta la nostra attività e poterla così comunicare in uno spazio pubblico, che va preservato, rinegoziato e costruito senza sosta. Usando la terminologia della Arendt, abbiamo bisogno di elaborare un discorso che renda conto delle nostre azioni di ricerca.

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Stop ai sacchetti di plastica

Pubblicato su da ronin

Saranno fuori legge dal primo gennaio. Le sportine dovranno essere biodegradabili, oppure di carta. I commercianti lamentano la difficile transizione

 

 

Niente proroghe, i sacchetti di plastica dal primo gennaio prossimo saranno fuori legge. Per portare a casa la spesa utilizzeremo buste biodegradabili, oppure involucri di carta, oppure dovremo rispolverare la cara vecchia borsa della spesa in tessuto. La norma è passata ieri in consiglio dei ministri, con l'approvazione del cosiddetto decreto milleproroghe.

L'abolizione dei sacchetti di plastica era ampiamente attesa, anzi era già slitatta di un anno (dovevava entrare in vigore all'inizio del 2010), anche se fino all'ultimo c'era la possibilità di un nuovo rinvio, al 2012, che invece non c'è stato. L'Italia recepisce così una direttiva europea. Ma il provvedimento, destinato a cambiare un'abitudine ormai decennale della nostra vita quotidiana, fa molto discutere.

Alla soddisfazione del ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, delle associazioni ambientaliste e dei consumatori, si oppogono le critiche che arrivano dalle associazioni dei commercianti, in particolare da Federdistribuzione, che lamentano la mancanza di una regolamentazione sulla fase di transizione. Anche da parte di alcune catene di supermercati vengono espresse perplessità relative alla difficoltà di adeguarsi in tempi brevi al provvedimento.

Contemporaneamente, ci sono invece iniziative di sensibilizzazione come "Porta la sporta", promossa dall'associazione dei "Comuni virtuosi", che riunisce una cinquantina di municipalità sul territorio della penisola. Il motivo per cui i sacchetti di plastica sono stati messi al bando è di carattere ambientale. Secondo i dati forniti da Coldiretti, gli italiani sono fra i massimi utilizzatori europei di shopper in plastica, ne consumano mediamente quasi 400 a testa ogni anno, per un totale di circa 25 miliardi di buste.

Quasi il 30% di questi sacchetti diventa rifiuto, e per smaltirli ci vogliono circa 200 anni. Per non parlare dell'impatto ambientale che hanno, per esempio, i sacchetti che finiscono in mare, causa di morte anche per delfini, balene, foche, tartarughe marine. Insomma, i sacchetti di plastica sono altamente inquinanti.

Il problema, lamenta ad esempio Federdistribuzione, è che pur essendo le azienda da tempo preparate all'abolizione dei sacchetti, senza la fase transitoria «ci saranno problemi per le imprese e per i consuamtori». Il decreto viene definito «generico», ad esempio «nessuno sa quali sono i parametri che definiscono quali buste siano legali e quali illegali».

I consumatori, invece, sembrano soddisfatti, almeno stando a un sondaggio, una specie di referendum simbolico, che Legambiente aveva fatto in novembre all'uscita dei supermercati: il 73% di coloro che hanno risposto si dichiarava pronto ad adottare la sportina riutilizzabile, il 16,2% il sacchetto di bioplastica e il 10,4% la busta di carta.

Comunque sia, dal prossimo primo gennaio tutti dovremo attrezzarci per far fronte alla scomparsa dei sacchetti. E siccome ci sono sempre i due lati della medaglia, se da una parte i negozi faranno fatica ad adeguarsi, e sicuramente i produttori di sacchetti di plastica non saranno per niente contenti, si può concludere dicendo che si apre un nuovo segmento di mercato che avrà senz'altro notevoli margini di crescita: quello delle borse della spesa.

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Addio Pisanu, o arrivederci? (update)

Pubblicato su da ronin

Nel Milleproroghe, il maxi-decreto di fine anno, mancherebbe il rinnovo del famigerato articolo 7 sull'autenticazione. Ma manca ancora all'appello la sua abrogazione. Nel frattempo si accavallano i dubbi

 

Cosa c'è davvero nel decreto Milleproroghe, un appuntamento fisso nella complicata e ridondante macchina legislativa italiana, occorrerà forse attendere la pubblicazione in Gazzetta ufficiale per saperlo. Quello che filtra, dalle dichiarazioni a margine del Consiglio dei Ministri che ha varato il provvedimento, è che i giorni dell'autenticazione obbligatoria per navigare su una WiFi pubblica si avvierebbero a conclusione. Almeno in teoria, perché come di consueto in Italia la soluzione potrebbe essere peggiore del problema.

Secondo le ottimistiche dichiarazioni del ministro per la Gioventù, Giorgia Meloni, parrebbe che da domani il Belpaese si allineerà con le normali nazioni avanzate dove una rete wireless non si nega a nessuno: "Sarà un piccola grande rivoluzione la liberalizzazione del WiFi conseguenza della decisione di non prorogare la validità del decreto Pisanu - avrebbe detto - Da lungo tempo il mio ministero si batteva per la cancellazione di una normativa senza eguali nel mondo occidentale. (...) Gli stessi proponenti originari della norma avevano ammesso ormai da tempo la scarsissima utilità per il contrasto al terrorismo di questa norma, che invece si è rivelata un grave ostacolo per la diffusione del libero accesso alla rete, e dunque per lo sviluppo dell'Italia".Fin qui nulla di particolare. Ma c'è un dettaglio nelle parole del Ministro che impone una riflessione: "Oggi la possibilità di sedersi al tavolino di un bar e connettersi alla rete con il proprio portatile è una consuetudine per i cittadini di tutte le nazioni sviluppate". Sarà così anche in Italia?

Dalle stesse parole del Ministro si evince che il Decreto Pisanu non è stato abolito, ma solo non prorogato: in sostanza, siccome l'autenticazione a mezzo carta di identità è e resta una legge dello stato, non c'è modo che questa disposizione venga accantonata a meno di una sua specifica cancellazione. Senza l'abrogazione dell'articolo 7, come ventilato e come dadisegno di legge depositato il 13 dicembre al Senato (e che è ben lungi da iniziare il suo iter), resta in vigore: ergo, non cambierebbe molto nel quotidiano, non ci sarebbe da sedersi e navigare, ma comunque da riempire un modulo e fare fotocopie per poter accedere a Internet.

Due le ipotesi messe in piedi in queste prime ore dagli addetti ai lavori. In un caso, fatta salva la necessità di continuare a recuperare le carte di identità, potrebbe decadere l'obbligo di trasmettere i dati alla Questura: da sottolineare che in nessun caso, né nelle parole del ministro Meloni e neppure nelle anticipazioni giornalistiche fin qui venute fuori, si parla della cancellazione dell'obbligo di registrazione e licenza per i gestori delle WiFi pubbliche. Questi ultimi dovranno comunque comunicare al questore tutte le informazioni fin qui previste dalla norma, e seguire l'iter consolidato: nessuno snellimento della burocrazia in questo passaggio.

La seconda ipotesi, che dovrebbe dipendere da come i tecnici dei ministeri competenti stileranno e interpreteranno la norma, potrebbe prevedere un meccanismo di identificazione più blando: magari con la registrazione dei MAC Address dei PC che si collegano, con un log da tenere a disposizione in caso di bisogna. Un approccio questo che semplificherebbe non di poco la procedura, pur con tutte le considerazioni del caso sulla facilità con cui è possibile mascherare o alterare il proprio MAC (ma, d'altronde, si è giunti a questo punto in considerazione della scarsa efficacia del Decreto Pisanu per il contrasto al terrorismo).

Se, invece, come sostiene l'onorevole Palmieri (PdL), sarebbe stato abrogato tutto l'articolo 7 tranne il primo comma (quello della registrazione dei gestori), pur in contraddizione con quanto affermato dal Ministro, il tutto potrebbe essere più rapido e incarnare quell'immagine mitteleuropea descritta dalla Meloni.

Nonostante l'euforia, insomma, conviene restare coi piedi per terra: l'annuncio di Maroni, ministro dell'Interno, fatto ormai più di un mese fa non ha automaticamente chiuso l'era della burocrazia wireless in Italia. Senz'altro sul piano politico pare che l'orientamento sia ormai verso la semplificazione e lo snellimento delle norme (fino a un certo punto), ma allo stato dei fatti le complicazioni restano in vigore: bar, ristoranti, negozi dovranno comunque andare in Questura per chiedere licenza per la propria WiFi, gli utenti potrebbero comunque dover consegnare la carta di identità al gestore per navigare. Senza un colpo di reni decisivo, di questo Decreto Pisanu potremmo non liberarci per ancora un bel po'.

Update (23/12): Al coro di felicitazioni si è unito anche il ministro Brunetta. Ma c'è un piccolo giallo da chiarire: nel comunicato stampa relativo alla seduta del Consiglio dei Ministri di ieri non c'è alcuna menzione specifica per il WiFi: secondo quanto è dato sapere le informazioni sul Decreto Pisanu sarebbero contenute nel Milleproroghe, ma non c'è modo di comprendere al momento le modalità di questa presunta "abolizione".





 

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Comunicazione efficace: come incidere sull'inconscio dell'interlocutore

Pubblicato su da ronin

Uno degli elementi più evidenti che balzano all'occhio quando si vedono due persone in sintonia tra loro (ad esempio due innamorati) è il sincronismo e la specularità delle loro azioni. Sembra quasi che si muovano all'unisono. "Somigliarsi" è uno dei modi attraverso cui gli esseri umani intessono relazioni profonde tra loro. Questo avviene sia a livello conscio, sia (e moltissimo) a livello inconscio. Sapersi sincronizzare e calibrare sull'altra persona, dunque, ci consente di predisporla favorevolmente verso di noi – e quindi verso ciò che abbiamo da comunicarle.

Dal momento che le persone si percepiscono tra loro attraverso i diversi canali sensoriali, la sincronizzazione dovrebbe avvenire prestando attenzione ai sensi e alla loro pluralità. Per entrare in sintonia con l'altro dovremmo imitarlo, possibilmente, sotto ogni aspetto sensoriale. Ad ogni modo, più concretamente e realisticamente, sarebbe bene prestare attenzione in particolare a:

  • le posizioni e i movimenti del corpo
  • la voce
  • l'articolazione del discorso

È consigliabile dunque osservare con attenzione la posizione assunta dall'interlocutore, e quelle che è solito assumere; poi bisognerebbe considerare i movimenti, e anche la loro velocità di esecuzione e la frequenza. Ad esempio, si può stare attenti a se l'altro sia una persona che gesticola molto oppure no. Particolare importanza va sicuramente dedicata ai movimenti della testa e delle braccia.

È importante anche acquisire consapevolezza degli atteggiamenti prossemici: ovvero, osservare se l'altro tende a mantenere una certa distanza, oppure a stare vicino, ed eventualmente a toccare l'interlocutore con gesti amichevoli e d'intesa.

Per quanto riguarda la voce, si deve tener presente che essa ha varie "dimensioni": "variabili" da tenere in considerazione e che possono dunque essere imitate. In particolare: il ritmo, la velocità, il volume, l'intonazione.

Importante è l'uso e la frequenza delle pause. Per essere efficaci ci si deve sforzare ad esprimersi in dialetto se l'interlocutore lo fa (per quanto possibile e senza cadere in un atteggiamento innaturale, e sempre che si padroneggi lo stesso dialetto, ovviamente), altrimenti in un italiano più o meno accurato, a seconda di come usa fare l'altro (idem che per il dialetto, è opportuno "avventurarsi" nella dizione, lessico e sintassi italiane solo se le si conoscono e controllano sufficientemente).

Se l'interlocutore ricorre ad una metafora, poi, è utile cercare di restare in tema con quella stessa metafora. Ad esempio: uno dice «Questa situazione non va bene, qui bisogna cambiare musica»; quindi l'altro potrebbe rispondere: «Ho un'idea che potrà trasformare questa musica in una marcia trionfale!».Un ultimo suggerimento: attenzione a sincronizzarsi con l'interlocutore con naturalezza e scioltezza, e a non imitarlo in tutto e per tutto, in maniera pedissequa ed automatica. Ovviamente, se si esagera, l'altro se ne accorge.

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Wikileaks e le sfide dell'informazione

Pubblicato su da ronin

La pubblicazione dei documenti segreti forniti dal sito di Assange propone un tema di fondo: come cambia l'informazione nell'era del web 2.0

 

In relazione al caso Wikileaks, un precedente che in questi giorni è stato citato da molti, compreso il direttore del New York Times Bill Keller, è quello di Daniel Ellsberg.

 

L'ex collaboratore del dipartimento della Difesa, nel 1971, consegnò al quotidiano della Grande Mela i"Pentagon Papers", documenti top secret sulla guerra in Vietnam.

Ellsberg aveva partecipato insieme ad altri ad un lavoro di classificazione dei documenti sul Vietnam disposto dal segretario alla Difesa Robert McNamara, che doveva rimanere riservatissimo. Un lavoro imponente, raccolto in 47 volumi che contenevano 4mila documenti segreti e che dovevano essere letti al massimo da una dozzina di persone.

Ma leggendo quelle carte, Ellsberg fu evidentemente colto da una crisi di coscienza. Risultato: con l'aiuto di Anthony Russo li fotografò e li consegnò, appunto, al New York Times. Che li pubblicò sollevando un polverone (la Casa Bianca si rivolse a un tribunale che bloccò la pubblicazione, ma due settimane dopo fu la Corte Suprema a stabilire, invece, il via libera, facendo prevalere il primo emendamento sulle preoccupazioni dell'Esecutivo per la sicurezza dello stato).

Anche oggi il caso Wikileaks vede i giornali alle prese con la pubblicazione di documenti segreti o riservati e il governo americano infuriato (per la verità, l'arrabbiatura e l'imbarazzo hanno coinvolto gli esecutivi di mezzo pianeta). Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, riferendsi a Wikileaks, ha parlato di «attività criminale», «offensiva irresponsabile», e «attacco alla comunità internazionale».

Come è noto, i documenti in questione sono circa 250mila cablogrammi sull'attività della diplomazia a stelle e strisce, che riguardano i rapporti con alleati e paesi di mezzo mondo. In questi giorni sono in molti a chiedersi se e quanto le notizie diffuse siano effettivamente scottanti, quali effetti siano destinate ad avere, quale sia il valore del contenuto informativo. Tutte domande a cui la risposta arriverà con il tempo.

Ma ci sono elementi su cui l'accordo è generale. Sul principio che il lavoro dei media non è quello di difendere i potenti da eventuali imbarazzi hanno concordato, ad esempio, tutti i direttori dei cinque quotidiani che hanno ricevuto le carte (l'americano New York Times, l'inglese Guardian, il francese Le Monde, il tedesco Der Spiegel, lo spagnol El Pais). Così come tutti hanno evidentemente ritenuto che i documenti fossero interessanti, visto che li hanno pubblicati. Il direttore del Pais, Javier Moreno, ha spiegato chiaramente che a suo avviso la portata delle notizie era tale da giustificare, anzi obbligare, la pubblicazione. E sulla stessa linea si sono espressi un po' tutti.

Contemporaneamente, però, tutti hanno anche sentito il bisogno di spiegare ai lettori il motivo per cui hanno ritenuto di pubblicare i dispacci, e in questi editoriali hanno preso in vari modi le distanze da Wikileaks, marcando le differenze con i metodi utilizzati dal sito di Assange.

«Trasparenza, analisi e giudizio non sono incompatibili e questo senza dubbio ci distingue dalla strategia di Wikileaks», scrive Le Monde. Il New York Times sottolinea di aver cancellato nomi e riferimenti a «persone che hanno parlato in modo riservato con i diplomatici e potrebbero essere in pericolo se fossero identificati», e spiega di aver contattato prima della pubblicazione il Dipartimento di Stato per registrarne le reazioni.

Come è naturale, il mondo si divide fra i difensori di Assange, che lo ritengono un paladino della libertà di informazione, e coloro che invece non lo amano per niente ed esprimono dubbi sulla buona fede del personaggio. Al di là delle opinioni di ognuno, il tema sollevato è enorme. E, più che la libertà di stampa e il rapporto fra quest'ultima e il potere, un tema che è sempre stato centrale, la questione vera sono i nuovi media. Come cambia l'informazione nell'era del web 2.0? Qual è il ruolo dei media? Quali sono i caratteri distintivi del giornalismo? La stampa sopravviverà alla rivoluzione digitale?

Domande al centro degli studi degli specialisti del settore che però si pongono anche i "normali" cittadini. Bill Keller propone una risposta citando Thomas Jefferson, che preferiva «giornali senza un governo, piuttosto che un governo senza giornali».

 

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Christian Morbidoni a Senigallia parla di Linked Open Data

Pubblicato su da ronin


Se la disponibilità di dati pubblici sul web è sicuramente un primo importante passo, la possibilità di riutilizzare liberamente e incrociare tra loro questi dati passa per l’utilizzo di tecnologie e formati standard.



È di recente costruzione il sito www.linkedopencamera.it, in cui i dati della PA sono pubblicati in forma di Linked Open Data, il che consente a terze parti di costruire vere e proprie applicazioni basate su questi dati, incrociandoli velocemente con altri già disponibili e creare servizi utili e interessanti per i cittadini e le imprese.

Sulla scia di quello che sta già accadendo in altri paesi, LinkedOpenCamera.it è un primo passo in questa direzione: con un gruppo di appassionati amici e colleghi gli ha dato vita Christian Morbidoni, assegnista di ricerca dell’Università Politecnica delle Marche, software architect e co-fondatore di SensibleLogic, che sabato 20 interverrà al convegno "Fammi Sapere", alla Rotonda a Mare di Senigallia dalle 9.30 alle 17.30.

dall'Università Politecnica delle Marche

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Il carattere consolatorio dell'autoinganno

Pubblicato su da ronin

Ci si persuade a credere determinate cose pur sapendo che sono di dubbia provenienza o addirittura palesemente false. Per quanto possa sembrare strano è un atteggiamento che dà ottimi risultati. Il carattere orgoglioso ha più evidentemente bisogno della propria dose di autoinganno rispetto altri.

 Chi si sente bene con sè stesso a prescindere che corrisponda o no con la realtà, tende a ottenere di più da sè e dagli altri. Si tratta di persone che sono più confidenti nei propri valori e per questo si assumono più rischi anche in nome di presunte capacità valutate oltre la media, hanno una predisposizione a influenzare la lealtà negli impegni altrui e di conseguenza la fedeltà nel perseguire gli obiettivi del gruppo, realistici o meno che siano.

 L'autoinganno protegge anche contro la distrazione in quanto meccanismo contro preoccupazioni, negligenze e perdita di concentrazione. Si riesce ad elaborare nuove strategie per superare indenni le difficoltà spesso perchè ignoriamo che gli altri ci osservano, ci valutano e giudicandoci spesso ci biasimano.

Situazione insopportabile? No, se vissuta come connaturata ad una posizione, spesso di leader, che suscita attenzione e stima ma anche invidia, incredulità e propensione al contrasto.

Anche verso gli altri l'autoinganno ha i suoi effetti spesso stravolgendo le "aspettative razionali" che crediamo governino la percezione del mondo ed è uno dei fattori più importanti per comprendere il funzionamento degli incentivi: le persone sono davvero convinte che "tutto ruoti attorno a sè" e il farglielo credere può essere un utile contraccambio per impegno, dedizione e sforzi profusi.

 Quasi tutte le cose che ci riguardano non le facciamo in quanto fini a sè stesse, ma perchè abbiamo imparato ad apprezzare il processo dell'impegno regolare e dell'autodisciplina; quindi ci illudiamo di pensare che teniamo in conto il fine più di quanto sia in realtà.

La chiave per vivere bene nella vita, è mantenere l'autoinganno come stabilizzatore generale, ma saperlo superare in modo selettivo per problemi specifici: quando pensiamo che il nostro lavoro è importante siamo contenti e lavoriamo meglio; i piccoli cambiamenti negli incentivi possono fare la differenza nelle nostre convinzioni e nei risultati.

 Dovremmo sforzarci di illuderci meno nelle faccende di cruciale importanza, conservando invece il nostro entusiasmo per la vita.

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Facciamolo girare

Pubblicato su da ronin

Lo stabilimento OMSA di Faenza (RA) sta per essere chiuso, non per mancanza di lavoro, ma per mettere in pratica una politica di delocalizzazione all'estero della produzione per maggiori guadagni.
Il proprietario dell'OMSA, il signor Nerino Grassi, ha infatti deciso di spostare questo ramo di produzione in Serbia,
dove ovviamente la manodopera, l'energia e il carico fiscale sono notevolmente più bassi.
Questa decisione porterà oltre 300 dipendenti, in maggior parte donne e non più giovanissime, a rimanere senza lavoro.

Da giorni le lavoratrici stanno presidiando i cancelli dell'azienda, al freddo, notte e giorno, in un tentativo disperato di impedire il trasferimento dei macchinari.

Le lavoratrici OMSA invitano tutte le donne ad essere solidali con loro, boicottando i marchi Philippe Matignon - Sisi - Omsa - Golden Lady - Hue Donna - Hue Uomo - Saltallegro - Saltallegro Bebè - Serenella - e vi sarebbero grate se voleste dare il vostro contributo alla campagna, anche solo girando questa mail a quante più persone potete se non altro per non alimentare l'indifferenza.

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Rita Tiberi
Responsabile Relazioni Esterne
Legambiente onlus
Via Salaria 403 - 00199 Roma
tel +3906862681
www.legambiente.it


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Equo compenso a norma UE

Pubblicato su da ronin

La SIAE risponde alla sentenza della Corte di Giustizia UE: siamo conformi, grazie a un sistema di esenzioni e rimborsi. Ma come funziona questo meccanismo?

 

 

All'indomani della notizia della Sentenza con la quale la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha stabilito che gli Stati membri possono esigere il pagamento di un equo compenso per copia privata solo in relazione a tipologie di dispositivi e supporti effettivamente "destinati" - e non già semplicemente "idonei" - alla registrazione di copie private, la SIAE, attraverso una dichiarazione del suo direttore generale, Gaetano Blandini, si è affrettata aprecisare che la normativa italiana sarebbe già coerente con la disciplina Europea.

Nella dichiarazione del DG SIAE, in particolare, si legge che "Circa la precisazione innovativa della Corte, e cioè la non conformità alle norme europee di una applicazione 'indiscriminatà dell'equo compenso per copia privata, è da chiarire che sin dal 2003 - anno in cui è stata recepita in Italia la direttiva comunitaria - trova attuazione in Italia, in particolare nelle procedure della SIAE (ente pubblico al quale la legge demanda l'applicazione della normativa nazionale sulla copia privata), un sistema di esenzioni e rimborsi".
La SIAE, dunque, sembra riconoscere la circostanza che l'attuale disciplina italiana in materia di equo compenso per copia privata prevede, a livello generale, un obbligo di pagamento di detto compenso anche in relazione a dispositivi e supporti per i quali - alla stregua della disciplina europea - esso non sarebbe dovuto ma pare ritenere che la conformità della disciplina nazionale (vale a dire il Decreto Bondi) alla normativa europea sia garantita dal "sistema di esenzioni e rimborsi" la cui gestione è, ex lege, demandata alla stessa SIAE.
Si tratta di una conclusione che non convince affatto.

Come, sebbene solo implicitamente, oggi ammesso dalla stessa SIAE, il Decreto Bondi, in effetti, impone l'obbligo di pagamento dell'equo compenso - salvo, appunto, eccezioni - anche in relazione a dispositivi e supporti tecnicamente idonei alla registrazione di copie private ma non anche a ciò "commercialmente" destinati: solo per fare un esempio l'attuale disciplina non sottrae dall'ambito di applicazione dell'equo compenso dispositivi e supporti acquistati da persone giuridiche e/o da professionisti per finalità estranee all'esecuzione della copia privata.
La possibilità, dunque, di considerare la vigente disciplina italiana conforme alla regolamentazione europea è legata esclusivamente alla possibilità di ritenere a ciò sufficiente il regime di esenzioni e rimborsi gestito, appunto, dalla SIAE.
Tale possibilità deve, tuttavia, essere esclusa.

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