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l'altra faccia della spirale

Energia: bolletta cara per le imprese italiane

Pubblicato su da ustorio

In Italia, le aziende pagano la bolletta dell'energia elettrica più costosa del continente: il 31,7% in più della media dei Paesi dell'Unione Europea.

 

Le imprese italiane scontano un grave gap in termini di costi dell'energia rispetto a quelle del Vecchio Continente. Infatti, manager e imprenditori del Paese pagano una bolletta maggiorata del 31,7% rispetto alla media Ue. Il che, tradotto in euro, equivale ad un maggior costo annuo complessivo pari a 7,93 miliardi di euro, pari a circa mezzo punto del valore aggiunto, ovvero 1.776 euro in media all'anno in più rispetto ai colleghi europei. Ma ci sono punte medie annuali in regioni Friuli Venezia Giulia (3.151 euro in più ad imprese), Sardegna (2.708 euro), Lombardia (2.208 euro) e Valle d'Aosta (2.187 euro).

E se si prevede che entro il 2035 la domanda mondiale di energia crescerà del 36% nel frattempo lo scorso anno le aziende del italiane del Nord hanno pagato complessivamente l'energia elettrica 4.615 milioni di euro in più rispetto alle imprese europee mentre è risultato di 1.392 milioni di euro il costo maggiorato per le imprese del Centro e di 1.932 milioni di euro quello per le aziende del Mezzogiorno.

La regione italiana che ha scontato il maggiore gap in termini di costi rispetto all'Europa è stata laLombardia con 1,8 miliardi in più rispetto alla media Ue, seguita da Veneto (800 milioni), Emilia Romagna (711 milioni) e Piemonte (677 milioni). In ambito provinciale, il maggior costo è stato sostenuto dalle imprese milanesi con un divario di 448 milioni di euro rispetto alla media europea, seguite dalle aziende di Roma (365 milioni euro), Brescia (356 milioni euro), Torino (276 milioni euro) e Bergamo (230 milioni euro).

Ma qual è il fattore preponderante che fa dell'Italia il fanalino di coda in termini di costi dell'energia? Ebbene, molto è determinato dalla pressione fiscale che pesa sul costo finale del 22,7%. Le imposte italiane sull'energia, infatti, sono più alte del 23% rispetto ai Paesi europei per complessivi 31.750 milioni di euro annui. Confartigianato sottolinea anche che, dal punto di vista fiscale, le piccole imprese scontato un gap ancora più ampio in quanto, in valore assoluto, il peso del fisco sui consumi di energia delle aziende in Italia è il più alto d'Europa ed è maggiore del 134,1% rispetto alla media Ue.

Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato, ha evidenziato che si può calmierare il prezzo dell'energia effettuando riforme strutturali "che aprano alla vera concorrenza i settori dell'elettricità e del gas, puntino sull'efficienza energetica e sull'uso di fonti rinnovabili, consentano di ridurre e riequilibrare la pressione fiscale sul prezzo dell'energia che grava soprattutto sulle piccole imprese". Insomma: quell'autonomia energetica che ci svincoli dall'importazione dall'estero.

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eppure per non mettere le mani nelle tasche degli italiani il modo ci sarebbe ed il cuore del premier non sanguinerebbe

Pubblicato su da ustorio

 

Agli insegnanti di religione delle proprie scuole lo Stato chiede un certificato di idoneità da parte dell'ordinario diocesano, ma non una laurea: basta anche un diploma di magistero in scienze religiose rilasciato da un istituto approvato dalla Santa Sede.` Ciò nonostante, il governo Berlusconi ha creato nel 2003 un organico di 15.507 posti che li immette in massa ruolo, e permette loro un successivo passaggio ad altre cattedre:' 9222 sono stati assunti nel 2005 e 3077 nel 2006, mentre gli altri precari (regolarmente laureati) della scuola attendono da anni l'assunzione a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda il clero, la revisione del Concordato istituisce la congrua di sostentamento col finanziamento « volontario » dell'8 per mille sul gettito totale dell'IRPEF. L'ammontare della cifra intascata annualmente dal Vaticano è di circa un miliardo di euro (2000 miliardi di vecchie lire): una somma che non è affatto destinata a opere di carìtà, come la pubblicità clericale cerca di far credere ogni primavera, nel periodo della dichiarazione dei redditi. Piuttosto, come ammettono le cifre ufficiali della CEi relative al triennio 2002-2004, in realtà i fondi vengono destinati a interventi caritativi soltanto per li 20 per cento, mentre al sostentamento del clero va il 34 per cento e alle « esigenze di culto » il 46 per cento.

Tra l'altro, il meccanismo del finanziamento è furbescamente truffaldino. Solo un terzo degli italiani sceglie infatti a chi devolvere l'8 per mille del proprio reddito: se allo Stato, alla Chiesa Cattolica o ad altre confessioni religiose (non sono contemplate organizzazioni umanitarie o scientifiche). Ma l’articolo 37 della legge di attuazione 141 recita: « In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce In proporzione alle scelte espresse ». E poiché, nella minoranza che sceglie, la maggioranza opta a favore della Chiesa Cattolica, questa ottiene la maggioranza (circa 1'85 per cento) dell'intero gettito.

Al miliardo di euro dell'8 per mille dei contribuenti, va aggiunta ogni anno una cifra dello stesso ordine di grandezza sborsata dal solo Stato (senza contare regioni, province e comuni) nei modi più disparati: nel 2004, ad esempio, sono stati elargiti 478 milioni di euro per gli stipendi degli insegnanti di religione, 258 milioni per i finanziamenti alle scuole cattoliche, 44 milioni per le cinque università cattoliche, 25 milioni per la fornitura dei servizi idrici alla Città del Vaticano [sic], 20 milioni per l'Università Campus Biomedico dell'Opus Dei, 19 'milioni per l'assunzione in ruolo degli insegnanti di religione, 1 milione per i buoni scuola degli studenti delle scuole cattoliche, 9 milioni per il fondo di sicurezza sociale dei dipendenti vaticani e dei loro familiari, 9 milioni per la ristrutturazione di edifici religiosi, 8 milioni per gli stipendi dei cappellani militarti, 7 milioni per il fondo di previdenza del clero, 5 milioni per l'Ospedale di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, 2 milioni e mezzo per il finanziamento degli oratori, 2 milioni per la costruzione dì edifici di culto, e così via.

Aggiungendo a tutto ciò una buona fetta del miliardo e mezzo di finanziamenti pubblici alla sanità, molta della quale è gestita da istituzioni cattoliche, si arriva facilmente a una cifra complessiva annua di almeno tre miliardi di euro, cioè 6000 miliardi di vecchie lire. Ma non è finita, perché a queste riuscite uscite vanno naturalmente aggiunte le mancate entrate per lo Stato dovute a esenzioni fiscali di ogni genere alla Chiesa, valutate attorno ad altri sei miliardi di euro, cioè 12.000 miliardi dl vecchie lire.`Gli enti ecclesiastici sono infatti circa 59.000 e posseggono cIrca 90.000 immobili, adibiti agli scopi più vari: parrocchie, Oratori, conventi, seminari, case generalizie, missioni, scuole, ,collegi, istituti, case di cura, ospedali, ospizi, e così sia. Il loro valore ammonta ad almeno 30 miliardi di euro, ma essi sono esenti dalle imposte sui fabbricati, sui terreni, sui reddito delle persone giuridiche, sulle compravendite e sul valore aggiunto (IVA).

Per capire l'entità di questa enorme cifra complessiva di nove miliardi di euro, cioè 18.000 miliardi di vecchie lire, basta notare che si tratta del 45 per cento della manovra economica per la Finanziaria del 2006, che è stata di 20 miliardi: ovvero, senza la Chiesa, o almeno senza i suoi privilegi economici, lo Stato potrebbe praticamente dimezzare le tasse a tutti i suoi cittadini.

Come se non bastasse, alle esenzioni fiscali statali si aggiungono anche quelle comunali: ad esempio dall'ici (« Imposta Comunale sugli Immobili »), in quanto gli enti ecclesiastici si autocertificano come « non commerciali ». Una sentenza della Corte di Cassazione, depositata l'8 marzo 2004, ha però stabilito che un centro di assistenza per bambini e anziani gestito dalle suore del Sacro Cuore dell'Aquila non poteva essere esentato dall'imposta, avendo fatto pagare rette regolari ai suoi ospiti: le suore dovevano dunque al Comune 70.000 euro di imposte arretrate. Poiché il precedente esponeva la Chiesa a simili rischi dovunque, i governi Berlusconi e Prodi sono corsi ai ripari: il primo allegando un temporaneo provvedimento alla Finanziaria per il 2006, e il secondo approvando un definitivo provvedimento"' che garantisce furbescamente l'esenzione dall'ici agli enti «non esclusivamente commerciali ». Ovvero, a tutte le imprese commerciali che siano dotate di una cappella nella quale pregare Dio per l'animaccia balorda dei Cattolici r dei loro fiancheggiatori laici che siedono in parlamento, a destra o a «sinistra ».

In tal modo i comuni italiani perdono un gettito valutato intorno ai 2 miliardi e 250 milioni di euro annui. La Santa Sede possiede infatti un enorme patrimonio immobiliare anche fuori della Città del Vaticano, in parte specificato dal Trattato del 1929: dal palazzo del Sant'Uffizio a piazza San Pietro a quello di Propaganda Fide a piazza di Spagna, dall'Università Gregoriana al Collegio Lombardo, dalla basilica di San Francesco ad Assisi a quella di Sant'Antonio a Padova, da Villa Barberini a Castel Gandolfo, all'area di Santa Maria di Galeria che ospita Radio Vaticana, e che da sola è più estesa del territorio del- intero Stato (44 ettari).

Ma questi non sono che i gioielli della corona di una multinazionale che, secondo una stima recente, nel 2003 disponeva nella sola Italia di 504 seminari e 8779 scuole, suddivise in 228 materne, 1280 elementari, 1136 secondarie e 135 universitarie o parauniversitarie. Oltre a 6105 centri di assistenza, suddivisi in 1853 case di cura, 1669 centri di « difesa della vita della famiglia», 729 orfanotrofi, 534 consultori familiari, 399 Idi d'infanzia, 136 ambulatori e dispensari e 111 ospedali, più 74 di altro genere.

È naturalmente ironico, oltre che illustrativo della citata “svolta costantiniana”, che a possedere un tale tesoro, che si può globalmente valutare ad alcune centinaia di miliardi di euro, e a non pagarci neppure sopra le tasse, siano proprio coloro che dicono di ispirarsi agli insegnamenti di qualcuno che predicava: « Beati i poveri » e « Date a Cesare quel che è di Cesare », facendo letterali miracoli pur di permettere ai suoi apostoli di pagare anche una sola moneta di tributo.

 

Fonte:

Piergiorgio Odifreddi- Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)

 

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Sicurezza online, danni e beffe

Pubblicato su da ustorio

Importanti siti web cadono vittima di vulnerabilità laddove dovrebbero avere le difese più forti, società di sicurezza dispensano consigli sui nuovi rischi del cloud computing mentre gestiscono portali-colabrodo

 

 Qual è il colmo per un sito come MySQL.com, "casa" telematica di uno dei componenti fondamentali della pila LAMP? Probabilmente cadere vittima di un attacco di SQL injection al database, con tanto di estrazione delle password di accesso e hacking finale. Gli autori dell'attacco? Un duo di smanettoni romeni "grey-hat" noti come "TinKode" e "Ne0h" suslacker.ro.

I due hanno 
individuato la vulnerabilità su mysql.com e sun.com, estratto gli hash dei nomi utenti e delle password contenute nei database dei siti, confrontato i suddetti hash con larainbow table e infine "indovinato" varie credenziali di accesso fra cui quella del direttore di prodotto per WordPress presso MySQL - in questo caso la passoword era un banale numero a quattro cifre.

Il nuovo attacco contro mysql.com mette ancora una volta in cattiva luce la gestione della sicurezza da parte di Oracle, visto che il sito è notoriamente vulnerabile ad attacchi Cross-Site-Scripting (XSS) già da alcuni mesi.

Il colmo per la (in)sicurezza in rete raggiunge vette di involontario sadismo quando a cadere vittima degli attacchi è la storica security enterprise McAfee. La società, recentemente acquisita da Intel al prezzo di svariati miliardi di dollari, gestisce un sito web tutto pieno di buchi. McAfee conferma, dice di essere al lavoro per chiudere le vulnerabilità individuate dallo YGN Ethical Hacker Group e garantisce comunque sulla salvaguardia delle informazioni di "clienti, partner e aziende".

E mentre gli hacker aprono spifferi nel sito corporate, McAfee trova il tempo di lanciare l'allarme sul crescente interesse dei cyber-criminali 
per i colossi dell'IT del mondo. Con il crescere dell'importanza della gestione "terza" di dati, informazioni e database, avverte McAfee, i malware writer accrescono il loro interesse verso le mega-corporation (Google, Amazon, Apple, Microsoft,...) che quei dati li conservano e gestiscono sui propri server.

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Redditi dei parlamentari, Berlusconi il più ricco del reame

Pubblicato su da ustorio

 

 

 

Il più ricco parlamentare italiano si conferma Silvio Berlusconi, che del resto è uno degli uomini più ricchi del mondo (118esimo, secondo Forbes). Fra i ministri, a dichiarare il reddito più alto è il titolare della Difesa, Ignazio La Russa. Fra i leader di partito, invece, il più abbiente è il presidente della Camera, Gianfranco Fini. È quanto emerge dalle dichiarazioni dei redditi dei parlamentari 2010.

Il presidente del consiglio ha dichiarato un imponibile di 40,8 milioni di euro, un reddito quasi raddoppiato rispetto ai 23 milioni del 2009. Fra le sue proprietà, diversi immobili a Milano, uno nel comune di Lesa, in provincia di Novara, le proprietà ad Antigua, tre depositi di gestione patrimoniale.

Molto distanziati, in materia di introiti, gli altri protagonisti della vita politica. Ignazio La Russa, ovvero il ministro più facoltoso, ha dichiarato 374mila euro, seguito dal titolare dell'Economia,Giulio Tremonti, a quota 301mila euro, e dalcollega della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, che ha guadagnato 300mila euro.

I due ministri più poveri, invece, sono Paolo Romani (Sviluppo Economico) con 161mila euro, eGiancarlo Galan, che ha appena sostituito Sandro Bondi ai Beni Culturali, con 149mila euro.

Per quanto riguarda gli altri ministri, dopo i tre sul podio ci sono, nell'ordine, Franco Frattini (Esteri), 237 milioni, Saverio Romano (Agricoltura) 236mila euro, Stefania Prestigiacomo (Ambiente) 222mila euro, Altero Matteoli (Infrastrutture e Trasporti) 183mila euro, Raffaele Fitto (Rapporti con le Regioni) 179mila euro, Maria Stella Gelmini (Istruzione) 176mila euro, Roberto Calderoli(Semplificazione) 174mila euro, Michela Brambilla (Turismo) 173mila euro, Maurizio Sacconi(Lavoro) 172mila euro, Gianfranco Rotondi (Attuazione del Programma) 172mila euro, Roberto Maroni (Interno) 170mila euro, Elio Vito (Rapporti con il Parlamento) 169mila euro, Angelino Alfano(Giustizia) 168mila euro, Umberto Bossi (Riforme) 167mila euro, Giorgia Meloni (Politiche giovanili) 165mila euro, Mara Carfagna (Pari Opportunità) 165mila euro, e infine i fanalini di coda Romani e Galan. 

Fra i presidenti delle due camere, il più ricco è Renato Schifani (Senato), con 229mila euro, mentre l'imponibile di Gianfranco Fini è pari a 186mila euro. Fra i leader di partito, dopo Berlusconi e Fini, la classifica dei facoltosi è guidata da Antonio di Pietro, 176mila euro, seguito Umberto Bossi, Pierluigi Bersani, 137mila euro, e Pierferdinando Casini, 106mila euro.

Infine qualche curiosità: il senatore a vita più facoltoso è l'ex presidente della Repubblica nonchè ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, con 717mila euro, seguito da Giulio Andreaotti, 488mila euro, Oscar Luigi Scalfaro, 232mila euro, Sergio Pininfarina, 214mila euro,Rita Levi Montalcini, 200mila euro, ed Emilio Colombo, 171mila euro. Il più ricco fra i capigruppo in Parlamento è Siegfried Brugger, presidente dei deputati della Svp, con 264mila euro, mentre il più povero è Massimo Donadi, numero uno dell'Idv a Montecitorio, con 99mila euro. 

Il premier nel 2010 ha dichiarato 40,8 mln. Dopo di lui, il ministro più ricco è La Russa, i più poveri Romani e Galan. I redditi dei parlamentari.

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la tassa di concessione governativa

Pubblicato su da ustorio

La tassa di concessione governativa (TCG) è stata introdotta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641 “Disciplina delle tasse sulle concessioni governative”. Successivamente, con il D.M. 28 dicembre 1995 è stata estesa anche ai contratti di telefonia mobile in abbonamento: 5,16 euro mensili per i privati e 12,91 euro mensili per i clienti business, anche se il costo era deducibile all’80% nella dichiarazione dei redditi.Nel 2003 con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 259/2003 “Codice delle comunicazioni elettroniche” la TCG è stata abolita, ma solo sulla carta visto che le compagnie in tutti questi anni hanno continuato ad applicarla. Oggi sembra sia stata messa definitivamente la parola fine a questo odioso balzello, grazie alla Sentenza n. 04/16/11 della Commissione Tributaria del Veneto che si è dichiarata appunto per la sostanziale illegittimità della tassa di concessione sui servizi di telefonia mobile, non trovando più applicazione la previsione di cui all’articolo 21 della Tariffa allegata al dpr n. 641/1972.

Così per effetto di questa sentenza oggi ciascun abbonato può inviare alla propria compagnia telefonica una diffida a mezzo raccomandata A/R perché non applichi più tale tassa (questo il fac simile) e chiedere all’Agenzia delle Entrate (questo il fac simile) ilrimborso per quanto indebitamente versato negli ultimi 3 anni, quindi fino ad un massimo di 185,76 euro in caso di utenza privata e di 464,76 in caso di utenza business.

 

Ricordarsi di allegare copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.

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Telemarketing: ora si può dire di sì e di no

Pubblicato su da ustorio

I cittadini potranno essere contattati anche qualora si iscrivano al Registro delle Opposizioni: basta un coupon compilato distrattamente e il telefono comincerà a squillare

 

"Da martedì 1 febbraio 2011 si potrà dire di no al telemarketing, alle chiamate a pioggia con le quali le aziende contattano i clienti che hanno scelto di passare alla concorrenza o con cui propongono nuove offerte commerciali, prodotti e servizi di ogni tipo". È questo l'annuncio pubblicato nei giorni scorsi sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico per informare consumatori e imprese dell'inizio di attività del Registro delle opposizioni istituito con il discusso DPR 7 settembre 2010, n. 178.

Lo stesso comunicato, intitolato "Telemarketing: con il registro delle opposizioni si può dire di no", prosegue poi chiarendo - si fa per dire - che "Entra infatti in vigore il 1 febbraio la legge varata nel 2009 che cambia radicalmente la gestione degli elenchi abbonati: si passa così dall'attuale regime dell'opt-in, che prevede l'esplicito consenso del cliente per poter essere chiamato telefonicamente (consenso che spesso viene dato all'insaputa dell'utente all'atto della sottoscrizione del contratto, tra una firma e l'altra), a quello dell'opt-out che, al contrario, stabilisce che gli abbonati sono tutti contattabili, salvo quelli che si iscrivono al Registro delle opposizioni, gestito dalla Fondazione Bordoni".

Si tratta, tuttavia, di una comunicazione istituzionale ambigua ed ingannevole che non riflette il contenuto della nuova disciplina e rischia di trarre in inganno tanto i consumatori che le imprese, persuadendo i primi che sarà sufficiente scriversi nel registro negativo per "essere lasciati in pace" e le seconde che i soli recapiti telefonici utilizzabili siano quelli non contenuti nel registro negativo.
Nessun dubbio, infatti, che il tenore complessivo del comunicato - in linea con la pressante attività di lobby che ha condotto al varo della nuova disciplina - mira a convincere il lettore della circostanza che le nuove regole abbiano sostituito il vecchio regime dell'opt-in con il nuovo regime dell'opt-out.
Non è, tuttavia, affatto così.

La nuova disciplina, infatti, ha semplicemente affiancato alla preesistente regola dell'opt-in (in forza della quale per utilizzare i numeri telefonici per finalità di marketing diretto era necessario richiedere l'esplicito consenso dell'abbonato) la nuova regola secondo la quale, limitatamente ai numeri provenienti dagli elenchi telefonici, tale consenso può ritenersi presunto, salvo che l'abbonato non abbia provveduto a iscrivere il proprio numero del registro negativo gestito dalla Fondazione Ugo Bordoni.

L'art. 2 del DPR 178/2010, infatti, nel chiarire l'ambito di applicazione della nuova disciplina, dice espressamente che essa "non si applica ai trattamenti, per i fini di cui all'articolo 7, comma 4, lettera b), del Codice, di dati aventi origine diversa dagli elenchi di abbonati a disposizione del pubblico legittimamente raccolti dai titolari presso gli interessati o presso terzi nel rispetto del diritto di opporsi di cui all'articolo 7, comma 4, lettera b), e degli articoli 13, 23 e 24 del Codice".
Si tratta, d'altra parte, di un principio ricordato, di recente, dallo stesso Garante per la privacy nel proprio 
provvedimento del 19 gennaio 2011, laddove si è chiarito che "il Regolamento(quello sul funzionamento del registro negativo, ndr) non si applica ai trattamenti di dati aventi origine diversa dagli elenchi di abbonati a disposizione del pubblico, legittimamente raccolti dai titolari presso gli interessati o presso terzi, nel rispetto, tra gli altri, degli artt. 7, comma 4, lett. b) e 23 del Codice (art. 2 del Regolamento)".

In tale contesto una corretta informazione istituzionale quale quella che sarebbe stato lecito attendersi dal Ministero dello Sviluppo Economico avrebbe, probabilmente, dovuto dire ai consumatori che dal 1° febbraio è possibile dire di no all'utilizzo automatico del proprio numero telefonico presente nell'elenco abbonati per finalità di telemarketing ma resta importante, come lo era prima dell'attivazione del registro, prestare grande attenzione nel rilasciare il proprio consenso all'utilizzo del proprio numero, quando richiesto attraverso coupon e/o contratti.

Allo stesso modo, le imprese, avrebbero dovuto essere puntualmente informate del fatto che i numeri telefonici sin qui raccolti autonomamente da clienti e potenziali clienti ed oggetto di consenso esplicito di questi ultimi per finalità di marketing, così come quelli che potranno essere raccolti, con analoghe modalità in futuro, possono essere utilizzati a prescindere dalla eventuale iscrizione di tali dati nel registro negativo.
Dopo mesi di dibattito sull'opportunità e l'utilità delle nuove regole è arrivato il momento della "prova dei fatti" e l'informazione corretta, puntuale e completa, specie da parte dei soggetti istituzionali cui la legge la demanda, rappresenta un fattore cruciale ed irrinunciabile.

 

 

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Milleproroghe e 30 milioni in bilico

Pubblicato su da ustorio

 

Il decreto Milleproroghe ha passato l’esame del Senato e si appresta ad affrontare l’esame della Camera. L’approvazione va però avanti con un piccolo giallo relativo alla banda larga, sulla quale pende la minaccia di una ulteriore detrazione delle somme previste per lo sviluppo della Rete sul territorio nazionale.

«Con 158 voti favorevoli, 136 contrari e quattro astensioni il Senato ha approvato il maxiemendamento interamente sostitutivo del decreto recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie». A larga maggioranza, quindi, passa un testo nel quale si nota però un aumento dei fondi destinati al Digitale Terrestre. E come risaputo ogni aumento fa fronte ad un taglio che, in questo caso, sembra ricadere ancora una volta sugli investimenti per la banda larga: «Per le finalità di cui al periodo precedente è autorizzata la spesa di 30 milioni di euro per l’anno 2011, da destinare al rifinanziamento del Fondo per il passaggio al digitale. Ai relativi oneri, pari a 30 milioni di euro per l’anno 2011, si provvede nell’ambito delle risorse finalizzate ad interventi per la banda larga dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nell’importo complessivo deliberato dal CIPE in data 11 gennaio 2011» (il documento è disponibile online ma al momento il server non sembra autorizzarne l’apertura).

A distanza di poche ore dall’approvazione giunge però una precisazione direttamente dal ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, secondo cui i 30 milioni in bilico non saranno sottratti dai 100 milioni appena annunciati per la riduzione del digital divide. Spiega anzi il ministro che «nel milleproroghe ci sono 30 milioni che avevamo rischiesto per l’ultimo passaggio alla digitalizzazione», ma che tale cifra non ha nulla a che vedere con i fondi FAS già accantonati. Il ministro scarica però sui gestori il destino della rete di nuova generazione poiché, spiega, l’avanzamento dei lavori dipenderà dal loro impegno e dal loro business plan. Soltanto a quel punto sarà definita la governance per la nuova infrastruttura e la rete in fibra potrà realmente prendere il via.

 

 

Fonte: ASCA

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Fatta la legge, va aggiornata

Pubblicato su da ustorio

 

 Incentivare l'uso della rete per i servizi al cittadino, concedere agli italiani la cittadinanza digitale. Ma un decreto oramai obsoleto lo impedisce, obbligando le PA a violare un'altra legge dello Stato

 

Si parla quotidianamente di CAD (Codice Amministrazione Digitale), innovazione, agende digitali europee, web collaborativo: la parola d'ordine è digitalizzare i servizi delle PA sia per una questione di risparmio economico, sia per garantire al cittadino trasparenza amministrativa, informazioni e servizi fruibili da qualsiasi computer. Ciò che sta alla base di tutte queste belle parole è l'innovazione tecnologica che, quotidianamente, cambia il nostro modo di vivere. Con la stessa velocità, purtroppo, non cambiano le normative vigenti e pertanto nascono casi in cui un decreto - se non aggiornato - obbliga le Pubbliche Amministrazioni ad usare tecnologie oramai obsolete rispetto ai servizi richiesti dal cittadino. 

È il caso della normativa italiana sull'accessibilità, che - come vedremo - necessita un immediato aggiornamento normativo in quanto sta causando costanti violazioni della stessa da parte di pubbliche amministrazioni di ogni ordine e grado.

Il problema
La vigente normativa nazionale sull'accessibilità prescrive (Legge n.4 del 2004, art. 12, comma 2) che il "decreto" (DM 8 luglio 2005), recante "Requisiti tecnici e i diversi livelli per l'accessibilità agli strumenti informatici", venga periodicamente aggiornato per recepire eventuali modifiche delle normative internazionali e per l'acquisizione di innovazioni tecnologiche intervenute in materia di accessibilità.
Innanzitutto è bene precisare che i gli attuali requisiti tecnici per i siti Internet (Allegato A del DM 8 luglio 2005) si basano sulla specifica W3C WCAG 1.0 risalente allo scorso millennio (5 maggio 1999). Come ben sapranno i lettori, all'epoca delle WCAG 1.0 il Web era prettamente basato su HTML, mentre tutto ciò che è oggi considerato "Internet" praticamente non esisteva: per comprendere il salto tecnologico, basti solo pensare che realtà come Facebook e YouTube non hanno visto la loro diffusione prima del 2005 e sempre in tale anno nasceva il termine Ajax (oggi il "motore" delle Rich Internet Application).

Con i vigenti requisiti, tutto ciò che è interazione (siti Web, applicazioni) deve funzionare senza l'uso di script (requisito 15) e con rispetto di regole (oggi) troppo rigide. A titolo di esempio, non è possibile implementare all'interno dei siti Web soluzioni come mappe interattive (Google Maps), effettuare il cosiddetto "mashup" e neppure acquistare soluzioni Web-based per la gestione di servizi interni/esterni alle PA in quanto secondo l'art.3 comma 2 del DM 8 luglio 2005 "I requisiti tecnici si applicano anche nei casi in cui i soggetti di cui all'articolo 3, comma 1 della legge forniscono informazioni o erogano servizi mediante applicazioni Internet rese disponibili su reti Intranet o su supporti, come CD-ROM, DVD, utilizzabili anche in caso di personal computer non collegato alla rete".

Tutto ciò crea una problematica sia negli acquisti di servizi da parte delle PA, in quanto la Legge 4/2004 all'art.4 comma 2 è ben chiara a tal proposito:

2. I soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, non possono stipulare, a pena di nullità, contratti per la realizzazione e la modifica di siti INTERNET quando non è previsto che essi rispettino i requisiti di accessibilità stabiliti dal decreto di cui all'articolo 11. I contratti in essere alla data di entrata in vigore del decreto di cui all'articolo 11, in caso di rinnovo, modifica o novazione, sono adeguati, a pena di nullità, alle disposizioni della presente legge circa il rispetto dei requisiti di accessibilità, con l'obiettivo di realizzare tale adeguamento entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto.

Risulta facile comprendere che oggi le PA sono obbligate all'acquisto di prodotti a norma dei vigenti requisiti, scegliendo il prodotto maggiormente accessibile (art.4 comma 1 della legge 4/2004) non potendo quindi sviluppare soluzioni orientate alle attuali forme di comunicazione in Rete. Questo ritardo porta chiaramente il sorgere di diverse problematiche:

1. le amministrazioni che intendono rispettare la legge 4/2004 si ritrovano ad acquistare prodotti che non consentono - se non in modo limitato - l'uso di nuove tecnologie orientate al c.d. Web collaborativo;
2. le amministrazioni che intendono utilizzare nuovi strumenti Web di fatto incorrono nella nullità del contratto (in assenza del riferimento all'accessibilità) oppure ad un collaudo "non idoneo" ai sensi della 4/2004;

3. gli sviluppatori di prodotti e servizi informatici, specie i player internazionali, sono già orientati verso le nuove linee guida WCAG 2.0 e quindi sono costretti a rientrare nel punto 1 (fornendo soluzioni "obsolete") oppure nel punto 2 (auspicando loro stessi un rapido aggiornamento dei requisiti).

Gli standard internazionali (W3C WCAG 2.0)
Per colmare questo gap tra evoluzione tecnologica e gli standard vigenti, il World Wide Web Consortium (W3C) ha rilasciato l'undici dicembre 2008 la versione 2.0 delle Web Content Accessibility Guidelines (WCAG 2.0) con cui non ha voluto tanto rivoluzionare le norme già esistenti, quanto renderle interoperabili e totalmente indipendenti dalla tecnologia utilizzata, grazie anche all'evoluzione delle tecnologie assistive.

Le WCAG 2.0, proprio perché indipendenti dalla tecnologia, prevedono una serie di linee guida, con dei criteri per soddisfarle (success criteria) e con delle tecniche di applicazione per differenti tecnologie. I maggiori produttori di tecnologie worldwide stanno predisponendo tecniche per specifici formati (Adobe PDF, Flash, Microsoft Silverlight sono solo alcuni esempi) creando una vera e propria "corsa all'accessibilità" da parte degli sviluppatori e creando una nuova cultura nell'acquisto di servizi da parte della clientela.

Consultazione avviata dal Dipartimento per la Digitalizzazione e l'Innovazione

L'emanazione, da parte del World Wide Web Consortium (W3C) delle nuove raccomandazioni internazionali (WCAG 2.0) nel dicembre del 2008 e l'invito della Commissione europea ad adottare tali raccomandazioni nei paesi membri, hanno determinato la necessità di procedere all'aggiornamento del citato "decreto".
È stato così costituito presso il Dipartimento per l'Innovazione della PA e l'Innovazione tecnologia un apposito gruppo di lavoro con il compito di produrre un elaborato tecnico su cui fondare l'aggiornamento richiesto.

Con tale premessa, il 3 giugno 2010 tramite lettera il capo del Dipartimento per la Digitalizzazione e l'Innovazione (DDIT) ringraziava i partecipanti al gruppo di lavoro (al quale hanno fatto parte i rappresentanti delle associazioni delle persone disabili maggiormente rappresentative, gli sviluppatori competenti in materia di accessibilità, i produttori di hardware e software e gli organismi pubblici e privati, anche internazionali, operanti nel settore) che - a titolo gratuito - hanno operato per l'aggiornamento dei requisiti attuali ai nuovi standard internazionali. 

Nei giorni immediatamente successivi alla lettera il dipartimento ha prontamente provveduto alla pubblicazione del 
documento, avviando la consultazione pubblica per la raccolta di eventuali suggerimenti/integrazioni, intitolando la pagina Web in modo beneaugurante ("Nuovi requisiti e punti di controllo per l'accessibilità").

Ad oggi sono trascorsi otto mesi, ma nel suddetto sito Web non risulta alcuna informazione sullo stato di avanzamento dell'iter di aggiornamento dei requisiti, che prevede l'emanazione di un nuovo DM a firma del Ministro competente (Renato Brunetta) in sostituzione al precedente. A suo tempo il legislatore ha sapientemente delegato allo strumento del DM l'aggiornamento di requisiti tecnici in un settore che è in costante aggiornamento ed evoluzione

Il CAD e la sua applicazione per il Web
La limitazione "tecnologica" dei requisiti attuali (funzionamento di siti ed applicazioni senza l'uso di script) è di fatto un serio problema per l'applicazione per la direttiva 8/2009 e le relative linee guida, in particolar modo per il rispetto dei criteri di valutazione della qualità dei servizi erogati ai cittadini tramite Web. 

Uno dei criteri di valutazione della qualità dei siti Web delle PA, indicato nelle linee guida, è proprio il grado di accessibilità ed usabilità dei servizi mentre un ulteriore criterio di valutazione è il cosiddetto "Amministrare 2.0": come possono convivere - con l'attuale decreto - le due indicazioni? A oggi una PA non può, ad esempio, sviluppare e/o commissionare soluzioni come sistemi di geo-referenziazione di segnalazioni effettuate dal cittadino e - per assurdo - nemmeno applicazioni Web-based per dispositivi mobili.

Per le PA che sviluppano internamente i propri servizi, resta valido l'obbligo di rispetto dell'accessibilità secondo quanto previsto dal Codice dell'Amministrazione Digitale (CAD). Ciò fa chiaramente capire che l'obbligo di rispettare i 22 requisiti di accessibilità per qualsiasi oggetto che rientri nella definizione normativa di SITO INTERNET (ai sensi del DM 8 luglio 2005 vi rientrano non solo i siti Web ma anche le applicazioni e le intranet Web-based) è imprescindibile rispetto ad ogni altro criterio di valutazione nell'acquisto ed erogazione di servizi informatici su rete Internet.

n questo periodo, con la pubblicazione del nuovo CAD e con la diffusione delle linee guida per i siti Web pubblici, vi è ampio fermento da parte delle amministrazioni che hanno l'onere di dover adeguare i propri siti Web - in ottica di trasparenza e accessibilità dei servizi in Rete.

Soluzioni virtuose e non onerose per le PA
Bisogna inoltre sfatare la credenza secondo cui l'aggiornamento normativo provochi un onere alle amministrazioni. Premettendo che le amministrazioni già a norma della legge 4/2004 non hanno alcun onere relativo all'adeguamento ai nuovi requisiti, l'aggiornamento consentirà alle amministrazioni non ancora adeguatesi di poter utilizzare al meglio strumenti di pubblicazione e/o comunicazione istituzionale.

Va inoltre considerato che la maggior parte dei produttori di tecnologie Web-based sta già effettuando dichiarazioni di conformità e lo sviluppo di tecniche di applicazione delle nuove WCAG 2.0, in ottica del prossimo aggiornamento della normativa americana (Section 508).

Conclusioni
Con una lettera in cui si riassumono le considerazioni presenti nell'articolo, l'associazione IWA ITALY (associazione degli sviluppatori esperti in materia di accessibilità) ha richiesto l'intervento da parte del capo dipartimento, il dottor Renzo Turatto, al fine di attivarsi per verificare l'iter di emanazione del decreto di aggiornamento dei requisiti di accessibilità, per consentire l'applicazione delle direttive in materia di comunicazione istituzionale tramite nuovi media previste nelle linee guida "Brunetta" per i siti Web pubblici ma oggi in contrasto con i requisiti del DM 8 luglio 2005.

L'aggiornamento del CAD, le linee guida per i siti Web pubblici sono un'occasione anche per un adeguamento del grado di accessibilità dei servizi erogati dalle P.A., a tutti i cittadini, indipendentemente dall'eventuale disabilità a cui sono soggetti.

È un vero peccato, tra l'altro, visto che il nostro paese è sempre stato portato come esempio in Europa per la normativa innovativa in materia di accessibilità: ora che possiamo essere nuovamente un esempio, ora che possiamo essere il primo paese in Europa ad applicare in modo serio le nuove linee guida internazionali anticipando pure l'amministrazione Obama, rischiamo di diventare il fanalino di coda. 

 

 

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Telemarketing, inizia l’era dell’opt-out

Pubblicato su da ustorio

 

A partire dalla giornata di domani ogni cittadino italiano che non intende essere disturbato presso la propria abitazione per offerte di marketing telefonico dovrà esplicitamente dichiarare la propria volontà presso un registro unico nazionale (denominato “Registro delle opposizioni“). La registrazione in questa “black-list” imporrà agli operatori il divieto alle chiamate in entrata sulla base di quanto disposto dal Garante per la Privacy, secondo cui ogni utenza deve avere la possibilità di negare a priori ad entità terze la possibilità di disturbare telefonicamente per proporre le proprie offerte

Si tratta di una svolta radicale rispetto al passato poiché ora occorre agire proattivamente per far in modo che il proprio numero di telefono non possa più essere raggiunto. Il registro sarà gestito dal Dipartimento comunicazioni del ministero dello Sviluppo economico e dalla Fondazione Ugo Bordoni: gli utenti potranno cancellarsi sia telefonicamente che mediante servizio online. A tal fine un apposito sito dovrebbe essere lanciato nelle prossime ore per consentire agli interessati di negare fin da subito i propri riferimenti agli operatori del telemarketing.

A partire dal prossimo mese inizierà anche una campagna informativa che tenterà di portare il Registro delle opposizioni sotto gli occhi di tutti, così che ogni cittadino sappia quali sono le opzioni a sua disposizione. Occorre ricordare come la nuova dimensione del telemarketing sia frutto di un codice di autoregolamentazione con cui il comparto ha trovato un equilibrio che tenesse fuori il Garante per la Privacy da interventi ancor più radicali: un compromesso in piena regola, insomma, da cui però l’utenza potrà ora svincolarsi informandosi semplicemente sulle proprie opportunità ed agendo attivamente per salvaguardare i propri diritti.

L’introduzione del nuovo registro non è però l’unica novità prevista: gli operatori potranno infatti chiamare soltanto in orari concordati, interrompere le comunicazioni nei giorni festivi e soprattutto dovranno rendere più trasparente la comunicazione esplicitando immediatamente la natura della chiamata ed informando sulla possibilità di accedere all’opt-out.

Il Registro delle opposizioni agirà per sottrazione sull’elenco pubblico delle utenze, escludendo da quest’ultimo gli utenti che hanno negato la propria raggiungibilità (l’opzione opposta, secondo cui gli utenti sarebbero stati esclusi a priori ed iscritti eventualmente per opt-in ad un elenco delle autorizzazioni, avrebbe chiaramente ucciso il settore ed il compromesso firmato dai gruppi del settore è pertanto una via obbligata per continuare ad operare). Il Registro non potrà avere altre finalità e l’iscrizione da parte degli utenti non determina possibili fughe di dati o eventuali cessioni che ne svilirebbero l’utilità. Se dunque si continueranno a ricevere chiamate promozionali e non si sarà ancora agito di conseguenza, d’ora in poi non ci saranno più scusanti: ogni utente è padrone del proprio destino.

 

Le prime istruzioni per l’iscrizione al registro sono state snocciolate dal sito PMI.it. Seguiranno ulteriori dettagli.

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Facebook e la privacy del nuovo millennio

Pubblicato su da ustorio

di M. Calamari - Non basta fare attenzione, non basta configurare tutto con attenzione. Le tecniche e le tattiche degli impiccioni si fanno sempre più raffinate. Attenti a ciò che cliccate, scattate, pubblicate

 

Vi ricordate di cose si intendeva per "anonimato" e per "difesa della privacy" una ventina di anni fa? Anzi, per far cifra tonda, alla fine del secondo millennio? Probabilmente no, sia per età relativamente giovane, sia perché i cambiamenti sono stati così grandi e così lenti da renderli difficilmente percepibili. Persino Cassandra è costretta a fare uno sforzo cosciente per percepirli.

"In quei tempi", infatti, una Rete ormai nell'adolescenza era popolata di due tipi di persone: quelli che si sentivano tranquilli, perché in Rete nessuno in effetti aveva interessi ad intercettarli, e quelli che vivevano, a torto od a ragione, investigatori e/o servizi segreti come potenziali impiccioni, e si mettevano tranquilli con un pizzico di crittografia ottenuta via PGP.

Gestione della privacy naturalmente in prima persona: io la difendo, o io la perdo. Oggi non funziona più così. Assolutamente.In primis oggi la Rete è piena di impiccioni di professione, che per magari legittimi ma anche perversi interessi commerciali e/o di controllo sociale pescano a strascico e sistematicamente i dati del Popolo della Rete. Inoltre, per la sparuta minoranza che ha qualche interesse a tentare di difendere la propria privacy le cose si sono fatte molto ma molto più difficili, soprattutto per il proliferare dei fattori a cui fare attenzione, alcuni decisamente imprevedibili fino a poco tempo fa.

La disseminazione e l'incrocio dei dati personali la cui fornitura è obbligatoria, come i dati fiscali, quelli del servizio sanitario e quelli censuari è diventato un problema di privacy molto grande, ora che questi dati finiscono sistematicamente in sistemi di data mining e vengono trattati con tecniche di incrocio e deanonimizzazione. Non è nemmeno il caso di sottolineare che l'Ufficio del Garante per la Protezione dei Dati Personali non abbia ancora nemmeno tentato di affrontare o anche solo stimare questo fenomeno.

Ma il problema di dimensioni maggiori è la perdita indiretta di privacy causata dalle reti sociali come Facebook. Infatti le social network, che ormai stanno evolvendo in social media, incentivano in tutti i modi possibili i loro partecipanti a scambiare quantità sempre maggiori di informazione. Nuove applicazioni come le liste di preferenze, il tagging di foto, il geotagging, stabiliscono un ponte fra le informazioni che l'incauto socializzatore decide di devolvere alla comunità sociale e quelle di altre persone esterne alla comunità stessa.

Facciamo un esempio: applicazioni come il riconoscimento delle caratteristiche delle foto pubblicate possono avere effetti incredibilmente rilevanti sull'estensione della rete di relazioni interne alla comunità sociale verso l'esterno. I tag EXIF delle foto sono le informazioni che la vostra macchina fotografica inserisce automaticamente in ogni immagine: si tratta di moltissimi dati, incluso di solito il numero di serie della macchina fotografica (avete spedito la garanzia, vero?) e talvolta anche la posizione al momento dello scatto rilevata via GPS, se presente.

Ma è possibile anche distillare dalla sola immagine il rumore di fondo univoco del sensore, che è diverso in ogni macchina: si tratta in pratica dell'impronta digitale della macchina fotografica. Questo rende possibile correlare tra di loro le immagini scattate con la stessa macchina fotografica, e di connettere loro tramite informazioni saltellando allegramente tra tag EXIF della foto, tag della comunità sociale ed associazioni tra immagini grazie a feature univoche come il rumore di fondo del sensore.

Non si tratta della predizione di un possibile futuro: le prime due associazioni sono pratica corrente dei gestori della comunità sociali, la terza è una tecnologia di cui esiste la prova di fattibilità, che potrà essere utilizzata (e forse lo è già) dal primo che la riterrà utile. Non bisogna sottovalutare mai le capacità delle tecniche di data mining, specie quelle non deterministiche ma su base statistica.

Riassumendo: la privacy del II millennio si difendeva lottando direttamente contro gli impiccioni, uno scontro chiaro e diretto. La privacy nel III millennio è ormai una questione molto più complessa.

I cattivi e gli impiccioni sono di più, più ricchi e più potenti. Ma il problema più grave è che non ci si deve difendere solo da loro, ma sopratutto dai tuoi "amici". Dai tuoi conoscenti. Dai tuoi apparecchi informatici. Dai tuoi gadget tecnologici.

Uno scenario molto, molto più complicato. E molto, molto peggiore.

 

 

 

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